
Il lato oscuro dell’Europa anticristiana ha fatto sentire la sua voce. E lo ha fatto attraverso la bouche de la loi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato lo Stato italiano in forza del principio per cui la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche “limita il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto di scolari di credere o di non credere”.
Ciò, sebbene la VI Sezione del Consiglio di Stato, con la celebre sentenza 13 febbraio 2006, n. 556, abbia sancito la vigenza e la legittimità dell’art.118 del R.D. 30 aprile 1924, n. 965 il quale prevede, appunto, che in ogni aula degli istituti sia presente “l’immagine del Crocifisso”.
In quella sentenza i magistrati amministrativi del Consiglio di Stato hanno dato particolare prova di una profonda saggezza coniugata ad un ferreo rigore giuridico, partendo dalla considerazione che il concetto stesso di “laicità” varia a seconda della tradizione culturale e dei costumi di vita di ciascun popolo, così come recepiti nei relativi ordinamenti giuridici. Costumi e tradizioni che, secondo gli stessi giudici del Consiglio di Stato, “mutano da nazione a nazione”.
Nella predetta sentenza 556/2006 l’assunto viene confermato attraverso un’interessante analisi comparativa. Si cita, infatti, l’esempio dell’ordinamento britannico, certamente laico benché strettamente connesso con la Chiesa anglicana, nel quale è consentito comunque al legislatore secolare dettare norme in materie interne alla stessa istituzione religiosa, come è recentemente accaduto, per esempio, con l’approvazione della legge sul sacerdozio femminile. La regina Elisabetta, peraltro, ricopre la carica di Supreme Governor of the Church of England con il titolo di Capo della Chiesa Anglicana (Head of the Anglican Church).
Un altro esempio è rappresentato dall’ordinamento francese, per il quale la laicità, costituzionalmente sancita (art. 2 Cost. del 1958), rappresenta una finalità dello Stato da perseguirsi anche a costo di una certa mortificazione dell’autonomia organizzativa delle confessioni (Lois Combes) e a discapito della libera espressione individuale della fede religiosa, fortemente limitata, per esempio, dalla legge sull’ostensione dei simboli religiosi.
Un altro esempio ancora è quello dell’ordinamento federale degli Stati Uniti d’America, nel quale la pur rigorosa separazione fra lo Stato e le confessioni religiose, imposta dal primo emendamento alla Costituzione federale, non impedisce un diffuso pietismo nella società civile, ispirato alla tradizione religiosa dei Pilgrim Fathers, che si esplica in molteplici forme anche istituzionali che vanno da un’esplicita attestazione di fede religiosa contenuta nella carta moneta – in God we trust -, al largo sostegno tributario assicurato agli aiuti economici elargiti alle strutture confessionali ed alle loro attività assistenziali, sociali, educative, nell’orizzonte liberal privatistico tipico della società americana.
Ultimo esempio, infine, è quello dell’ordinamento italiano dalle cui norme costituzionali, per il Consiglio di Stato, “si evince, un atteggiamento di favore nei confronti del fenomeno religioso e delle confessioni che lo propugnano”.
Da questa considerazione di ordine generale sulla natura relativa del concetto di laicità ne deriva, per i giudici di Palazzo Spada, che tale concetto, “benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale (…), non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi”. A volte muta persino all’interno dello stesso Paese, come ad esempio in Italia dove l’attuale concetto di laicità non corrisponde certo a quello del periodo risorgimentale in cui furono consentite discriminazioni restrittive in danno degli enti ecclesiastici e dei stessi cattolici.
Con buona pace di tutti i lacisti, poi, gli stessi giudici del Consiglio di Stato concludono che “quale dei sistemi giuridici sia meglio rispondente ad un’idea astratta di laicità, che alla fine coincide con quella che ciascuno trova più consona con i suoi postulati ideologici, è questione antica; una questione che però va lasciata alle dispute dottrinarie”.
Per quanto riguarda, nello specifico, la controversi circa l’esposizione del crocifisso nelle scuole, i giudici della VI Sezione del Consiglio di Stato, sempre nella citata sentenza 556/2006, hanno preliminarmente rilevato che esso rappresenta “un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi, a seconda del luogo ove è posto”. Non v’è dubbio, infatti, che “in un luogo di culto il crocifisso è propriamente ed esclusivamente un ‘simbolo religioso’, in quanto mira a sollecitare l’adesione riverente verso il fondatore della religione cristiana”, mentre in una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso può comunque “rappresentare e richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo) valori civilmente rilevanti, e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile”.
Secondo gli stessi magistrati, infatti, “il crocifisso può svolgere, anche in un orizzonte ‘laico’, diverso da quello religioso che gli è proprio, una funzione simbolica altamente educativa, a prescindere dalla religione professata dagli alunni”.
Alla domanda di quali possano essere i valori trasmessi da quel simbolo, i consiglieri di Stato danno questa risposta: “E’ evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana. Questi valori, che hanno impregnato di sé tradizioni, modo di vivere, cultura del popolo italiano, soggiacciono ed emergono dalle norme fondamentali della nostra Carta costituzionale, accolte tra i ‘principi fondamentali’ e la prima parte della stessa (…), delineanti la laicità propria dello Stato italiano”.
All’obiezione di chi oppone l’ordine temporale a quello spirituale, i giudici rispondono che una simile “contrapposizione è sottesa ad una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella nostra Carta costituzionale”. In realtà, “non si può pensare al crocifisso esposto nelle aule scolastiche come ad un suppellettile, ad un oggetto di arredo, e neppure come ad un oggetto di culto”, lo si deve piuttosto considerare come un simbolo dei valori che fondano la civiltà italiana e che “delineano la stessa laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”. Ma i giudici vanno oltre ed arrivano ad affermare che “nel contesto culturale italiano, appare difficile trovare un altro simbolo, in verità, che si presti, più del crocifisso, a rappresentare tali valori” notando che la stessa appellante, del resto, auspicava e rivendicava “una parete bianca, la sola ritenuta particolarmente consona con il valore della laicità dello Stato”.
Da qui la conclusione del Consiglio di Stato nella citata sentenza n.556/2006: “La decisione delle autorità scolastiche, in esecuzione di norme regolamentari, di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, non appare pertanto censurabile con riferimento al principio di laicità proprio dello Stato italiano”. Pertanto, “la pretesa che lo Stato si astenga dal presentare e propugnare in un luogo educativo, attraverso un simbolo (il crocifisso), reputato idoneo allo scopo, i valori certamente laici, quantunque di origine religiosa, di cui è pervasa la società italiana e che connotano la sua Carta fondamentale, può semmai essere sostenuta nelle sedi (politiche, culturali) giudicate più appropriate, ma non in quella giurisdizionale”.
Peccato che queste sagge e rigorose considerazioni siano state vanificate da una sentenza ideologica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, non a caso, in Italia è stata salutata con entusiasmo soltanto dall’U.A.A.R., l’unione degli atei ed agnostici razionalisti. Proprio quelli che, in preda una sorta di furia iconoclasta, si battono per eliminare qualunque simbolo religioso pubblico, a cominciare dalle croci sulle vette delle montagne ed agli incroci delle strade, per finire con le cappellette, le statue, e persino la toponomastica che ricorda santi, papi, donne e uomini religiosi. Si può anche sorridere, ma questa è la conseguenza logica della sentenza europea. E non è escluso, conoscendo quei magistrati, che la prossima mossa giudiziaria possa orientarsi nella direzione iconoclasta dell’U.A.A.R.
E’ proprio dando un’occhiata ai membri della Corte Europea che si possono intuire i motivi della decisione sui crocifissi e preconizzare sinistri presagi. Mi riferisco, in particolare a due giudici.
Il primo è l’italiano Vladimiro Zagrebelsky, talmente imparziale da aver meritato, l’anno scorso, il premio di “Laico dell’anno 2008”, conferitogli dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, aderente alla EHF – FHE European Humanist Federation.
Il secondo è Ayşe Işıl Karakaş, professoressa universitaria turca che vive, opera e insegna in un Paese musulmano.
E’ difficile immaginare una sintesi più efficace di questa coppia di magistrati per rappresentare l’Europa che ci aspetta nei prossimi decenni.
Fonte: l’occidentale